Aveva 90 anni, una carriera interminabile nel segno del suo conterraneo Giuseppe Verdi [ascolta —> Carlo Bergonzi – Carlo Bergonzi intervista I Parte – Carlo Bergonzi 2 parte]
di Paolo Padoan
La questione sul modo di cantare e di interpretare le opere di Giuseppe Verdi, sul tipo e colore di voce più idonei, ha sempre interessato i cultori ed i melomani. Quando sui palcoscenici degli anni ’20 e ‘30 del secolo scorso si esibiva il veneto Aureliano Pertile (Montagnana 1885-Milano 1952) tutti erano d’accordo nell’attribuirgli il grosso merito di vero e proprio tenore verdiano.
Ma dopo di lui, le discussioni ripresero numerose. Chi diceva che Mario Del Monaco non era adatto perché troppo irruento, chi invece notava che Franco Corelli era troppo enfatico, Di Stefano troppo passionale, Pavarotti generico e non sempre convincente, e così via.
E’ stato lui, per tutti quegli anni, il tenore verdiano per antonomasia, eccellente nel fraseggio, nella mezza voce, nell’acuto, nell’accento, nel solido supporto tecnico, nelle notevoli qualità espressive.
Qualità che gli permisero di affrontare indenne quasi tutte le opere verdiane, non tralasciando però i ruoli principali di quelle di Donizetti, Leoncavallo, Mascagni, Puccini, Boito e Giordano.
Come Gigli, non era un grande attore: aveva una gestualità tradizionale “antica”; si muoveva poco in scena, ma incantava per il suo magistero tecnico.
Celebri le sue interpretazioni di opere come Un ballo in maschera, Aida, Luisa Miller, La forza del destino, tutte di Verdi, ma anche di Lucia di Lammermoor di Donizetti, Mefistofele di Boito, La Gioconda di Ponchielli, Pagliacci di Leoncavallo. Fatto curioso, aveva iniziato la carriera come baritono, interpretando il ruolo di Figaro nel Barbiere di Siviglia nel 1948, al suo ritorno indenne in Italia dopo tre lunghi anni di prigionia in un campo di lavori forzati in Germania a causa del conflitto mondiale. Non soddisfatto dei risultati (tuttavia assai lusinghieri), decise di cambiare impostazione di voce studiando da autodidatta e debuttando nel 1951 come tenore a Bari, protagonista dell’Andrea Chénier di Giordano. Cantò dappertutto. Si esibì per 33 stagioni al Metropolitan di New York, per 9 stagioni alla Scala di Milano, per 21 stagioni all’Arena di Verona e poi a Napoli, Venezia, Roma, Firenze, Londra, San Francisco, Vienna, Madrid, Buenos Aires, ecc., accanto ai più celebri colleghi del momento. Dopo il ritiro dalle scene si dedicò ai giovani trasmettendo loro i suoi insegnamenti prima con il Concorso Voci Verdiane di Busseto e poi con l’Accademia Verdiana a lui intitolata. Chi scrive ha avuto il privilegio di presentarlo al Teatro Verdi di Padova nel corso dei festeggiamenti per i suoi 80 anni di età. In quella occasione la sua classica verve romagnola incantò tutti. In mattinata aveva assistito alla Messa nella basilica del Santo durante la quale aveva cantato, con voce ancora piacente, l’Ave Maria di Schubert.
A mettere d’accordo tutti, tra il 1955 e il 1985 circa, è stato il tenore Carlo Bergonzi di Vidalenzo, a pochi passi dalla Villa Verdi situata a Sant’Agata, scomparso il 25 luglio scorso alla bella età di 90 anni, presso l’Istituto Auxologico di Milano.